Postfazione di Carlo Romeo
Un uso sempre magistrale di diversi registri linguistici, dall’aulico letterario al parlamento dialettale, e di un lessico così ricco e vario da non avere riscontri nella letteratura italiana recente
Sebastiano Vassalli
Pubblicato nel 1984 e da molto tempo uscito dalla distribuzione libraria, il racconto autobiografico L’uva barbarossa rappresenta una delle più importanti elaborazioni letterarie delle vicende del gruppo italiano immigrato in Alto Adige, un vero e proprio classico della letteratura altoatesina. Romana Pucci racconta le vicende vissute durante l’adolescenza, incentrate sulla figura del padre, un burbero e mordace ferroviere di origine toscana trasferito a Bolzano. Fitti sono i riferimenti storici che si innestano in questa sorta di amaro romanzo di formazione: l’immigrazione nella “nuova Bolzano” costruita dal fascismo, la vita quotidiana durante la guerra, l’occupazione nazista, gli scontri del 3 maggio (in cui rimane ferito il padre) e i duri anni del primo dopoguerra.
L’originale e vivace scrittura della Pucci ebbe notevoli riconoscimenti da parte della critica nazionale, da Lalla Romano a Giovanni Raboni, da Natalia Ginzburg a Sebastiano Vassalli.
La riedizione del libro è arricchita da un apparato di note (per rendere fruibili al lettore di oggi i tanti riferimenti alla Bolzano dell’epoca) e da un saggio di postfazione che permette di contestualizzare storicamente l’opera e di ricostruirne l’ampia rassegna critica.